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“La mafia era, ed è, altra cosa: un <sistema> che in Sicilia contiene e muove gli interessi economici e di potere di una classe che approssimativamente possiamo dire borghese; e non sorge e si sviluppa nel <vuoto> dello Stato (cioè quando lo Stato, con le sue leggi e le sue funzioni, è debole o manca) ma <dentro> lo Stato.
La mafia insomma altro non è che una borghesia parassitaria, una borghesia che non imprende, ma soltanto sfrutta.”

                                                                
    -Leonardo Sciascia

Pagina realizzata dagli alunni della classe 3A con il supporto della prof.ssa Schillaci

  Mafia e letteratura :

da Sciascia a Pirandello, da Pasolini a Calvino.

Il binomio mafia e letteratura, come si sa, ha avuto una fortunata evoluzione nel panorama letterario italiano in particolar modo nell’ otto-novecento, studiato da scrittori della regione siciliana (Verga, Pirandello, Sciascia e come vedremo, anche un insospettabile Tomasi Di Lampedusa), ma non mancano contributi di eminenti scrittori e intellettuali del centro-nord, come Calvino e Pasolini e, più tardi, Luigi Malerba. Nonostante, nell’arco di duecento anni, soprattutto in Sicilia si sia prodotto un notevole corpus letterario di opere che analizzano e denunciano il fenomeno mafioso in tutte le sue sfaccettature e in tutte le sue evoluzioni (si pensi solo a Sciascia, che ha descritto minuziosamente sia, per così dire, le tecniche classiche della mafia, ma fu anche uno dei primi ad approfondire le nuove mafie, costituite da infiltrazioni nel terziario, finanziamenti illeciti e infiltrazioni comunali), uno scrittore come Sebastiano Vassalli ha accusato gli scrittori siciliani di omertà e di non aver saputo descrivere il fenomeno mafioso con chiarezza. Pirandello ne I Vecchi e i Giovani (1913), analizza la figura di Roberto Auriti, candidato dal partito di Crispi, che nota sospettoso e insicuro la venuta improvvisa in paese di certe persone poco prima delle elezioni. La stessa madre di Roberto Auriti, Caterina Laurentano, spiega al Veronica, fedelissimo di Crispi, che la mafia è una buona scusa e un efficiente mezzo per coprire trent’anni di malgoverno. Verga, nel Mastro don Gesualdo, descrive il canonico Lupi e il barone Zacco con le peculiari caratteristiche del mafioso, e anche il marito di Diodata, Nanni L’Orbo, che la stessa Diodata era stata costretta a sposare con un matrimonio riparatore da Gesualdo, anche se innamorata di quest’ultimo, è un preciso esempio di picciotto, che dopo aver “sgarrato”, fa una brutta fine. Nei Vicerè di De Roberto, è descritta tutta la vicenda di Tangentopoli, con voti di scambio e appalti pubblici e da li si arriva alla questione che più di ogni altra è la causa dell’impossibilità e incapacità di contrastare la mafia. Passando per Tomasi Di Lampedusa, che dapprima fa descrivere al Principe Salina il fenomeno con una sola parola mentre distorce il nipote Tancredi a frequentare certa gente e in seguito il bisogno impellente di Don Fabrizio di dover fare dei regali a certa gente “gente influente di Girgenti” per poter tanquillamente usufruire dei pozzi d’acqua legati alla mafia quando si spostava da Palermo a Donnafugata. Avanti negli anni troviamo riferimenti e analisi alla mafia e a tutto il sistema corrotto da parte di scrittori e intellettuali come Calvino e Pasolini. Sono essi intellettuali gramsciani, uniscono politica e società e pervengono a un’accurata analisi del sistema e della società in cui vivono. Calvino analizza la linea sottile che vi è tra lecito ed illecito, cosìcche intascare la tangente non sarebbe di per sé un reato se ciò collima con la mentalità comune. La soluzione per Calvino è l’eterna lotta nel rimanere onesti. Voleva reagire al marciume rimanendo ferma nelle proprie convinzioni. Ad anticipare Calvino, è stato Pasolini con il suo celeberrimo proverbiale e fortunato Io so. L’Io so, anche se un giornalista del calibro di Pierluigi Battista, già vicedirettore del “corriere della sera”, l’aveva definito “il peggior Pasolini, quello da dimenticare” e i seguaci di questa dottrina “pessimi allievi di un cattivo maestro” si ricollega, anche al discorso di Calvino di un qualcuno che in parte denunci lo scempio. Pasolini sa, ma non ha le prove. Rimprovera ai politici ed alla classe dirigente di avere le prove di non parlare. Perché la classe politica, collusa con la mafia e responsabile delle stragi di stato più efferate, a tutto da perdere facendo questi nomi, mentre lui non ha niente da perdere. Pasolini conclude con un’ amara costatazione su un colpo di Stato, costatando che coloro che faranno i nomi dei responsabili saranno gli stessi che con essi hanno condiviso, condividono e condivideranno il potere.

 Lo scrittore che più ha narrato descritto la mafia nelle sue opere è Sciascia. Sciascia oltre che nelle sue opere più rappresentative come il giorno della Civetta, ci raccontava bene i meccanismi della mafia nelle corrispondenze negli anni settanta per “il giorno”, giornale voluto e finanziato da Enrico Mattei, che finì esso stesso vittima, forse, della mafia. Sciascia descrive la realtà di Riesi, di Castelvetrano, il paese di Giuliano, realtà di mafia, e si irritava perché il giorno della Civetta era alla fine, letto come un “ragguaglio folkoristico”. Anche per Sciascia, come per Calvino, la soluzione, ottimista, era di formare un esercito di persone corrette, in particolar modo “contarsi”, “di fare opinione, di contrapporsi alle idee dominanti”. Di Malerba, che di Sciascia disse che “aveva fatto dalla mafia un mito”. Si ricorda il Pianeta azzurro, in cui descrive le trame occulte della P2 e del potere perverso mafioso.

                                                              Sciascia, il “giorno della civetta”

Nel romanzo di Leonardo Sciascia “il giorno della civetta” l’autore siciliano, da sempre interessato alla situazione socio-economica della sua terra, era impegnato nella denuncia della mafia, che avanzava su tutto il territorio. Sciascia decide di servirsi del romanzo giallo per poter esprimere il suo risentimento e un fatto realmente accaduto, ovvero, l’omicidio del  sindacalista Accursio Miraglia, ucciso dalla mafia nel 1947. Accursio Miraglia diventa, grazie alla penna dello scrittore, Salvatore Colasberna, un piccolo imprenditore cui la mafia spara mentre sale su un autobus. Le indagini vengono affidate al Capitano Bellodi, altro personaggio che Sciascia “ruba” alla realtà. Quando i carabinieri giungono sulla scena del delitto i passeggeri si dileguano velocemente. Le forze dell’ordine riescono ad interrogare solo l’autista e il bigliettaio, che negano di riconoscere il corpo del “morto ammazzato” e persino di aver assistito all’omicidio. I carabinieri riescono a portare in caserma un venditore di panelle che, dopo due ore, ammette di aver sentito colpi di arma da fuoco provenire dall’angolo della chiesa. Il caso viene affidato al capitano Bellodi che non  si arrende davanti a questo muro di silenzio e riesce ad individuare gli indizi che legano l’omicidio alle organizzazioni mafiose locali e alle forze politiche al potere, grazie anche al doppiogioco del mafioso Calogero Dibella. Il capitano Bellodi, dopo varie difficoltà, riesce ad ottenere il nome del presunto assassino, Diego Marchica, grazie alla moglie di Paolo Nicolosi, che fu trucidato dalla mafia per aver riconosciuto l’assassino. Bellodi riesce a fermare l’omicida e i suoi mandanti, ma vengono rilasciati. La stampa s’interessa al caso e si apre un dibattito in Parlamento. Le pressioni politiche portano all’archiviazione del caso, grazie ad alibi costruiti da politici influenti per scagionare Diego Marchica. Viene inoltre affermato che la mafia è un’invenzione e che in realtà il delitto è spiegabile come un caso di infedeltà coniugale. Bellodi, nel frattempo, scopre l’esito della sua inchiesta sulle collusioni tra la mafia e il potere e dichiara di volersi “rompere la testa” tornando in Sicilia a combattere la mafia.

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