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IL CORAGGIO DEGLI ONESTI

In questa pagina abbiamo voluto ricordare e raccontare le storie di uomini e donne coraggiosi che si sono opposti alla mafia.

Gli articoli sono stati scritti dagli alunni della classe 3°C con il supporto delle professoresse M. Cusumano e M. Cavera.

 

Giovanni Falcone

Al di là della paura

 

“Perché una società vada bene, si muova nel progresso, nell'esaltazione dei valori della famiglia, dello spirito, del bene, dell'amicizia, perché prosperi senza contrasti tra i vari consociati, per avviarsi serena nel cammino verso un domani migliore, basta che ognuno faccia il suo dovere.”

Ecco la sintesi del messaggio morale lasciatoci da Giovanni Falcone: un magistrato che ha dedicato la vita alla lotta contro la mafia.

Per molti il più grande esempio italiano di uomo delle istituzioni e tra i primi a parlare di Cosa Nostra come ”organizzazione parallela allo stato”. I suoi metodi di lavoro innoveranno l'attività investigativa.

Nato a Palermo, conseguita la laurea in giurisprudenza con lode all'università di Palermo, nel 1964 vinse il concorso in magistratura e ricoprì per circa dodici anni il ruolo di sostituto procuratore presso il tribunale di Trapani.

Chiamato dal giudice Rocco Chinnici a investigare sulla criminalità siciliana e sui contatti con quella americana, nel 1982 entrò nel pool antimafia ideato dallo stesso Chinnici e diretto da Antonino Caponnetto. Insieme con altri colleghi e con l'amico fidato Paolo Borsellino, inaugurò un nuovo approccio nelle indagini, attraverso un'efficace gestione dei pentiti. Uno di questi, Tommaso Buscetta, gli svelò la struttura tentacolare della cupola siciliana, dando un contributo decisivo all'organizzazione del primo storico maxi processo alla mafia.

Il procedimento si aprì il 10 febbraio del 1986, portando alla sbarra oltre 400 imputati, tra cui boss latitanti come Riina e Provenzano. Seguirono anni di delusioni, come la mancata nomina a successore di Caponnetto e lo scioglimento del pool e di veleni legati alle lettere anonime del famigerato “Corvo” e alle invidie dei colleghi. Scampato ad un primo attentato nel 1989, nella sua villa all'Addaura, fu nominato procuratore aggiunto di Palermo del CSM e in seguito chiamato a dirigere la sezione affari penali dal ministero di Grazia e giustizia, presieduto da Claudio Martelli.

Accusato di brama di potere, per la sua candidatura a coordinare una superprocura antimafia, ricevette l'incarico di “super procuratore” il 22 maggio del 1992.

Il giorno dopo perse la vita con la moglie e tre agenti della scorta nella tragica strage di Capaci, di cui furono accusati come mandanti Riina e Provenzano.

”Medaglia d'oro al valor civile”, nel 2006 venne inserito dal settimanale Time tra gli eroi degli ultimi 60 anni.

Giovanni Falcone ci ha lasciato un grande esempio di onore e coraggio.

 

SONNY ROMANO MONACHELLI

 

Un eroe dei nostri giorni

A distanza di anni dalla sua morte, Paolo Borsellino viene ricordato ancora oggi per il suo impegno e la sua dedizione nel salvare Palermo dal terribile mostro che è la mafia.

L'amore per la patria e la giustizia gli diedero quella spinta interiore che lo portò ad entrare nel campo della magistratura. Fece un concorso per diventare magistrato e ci riuscì nel 1963.

Nel 1975 fu trasferito presso l'Ufficio istruzione del tribunale di Palermo. Fu 5 anni dopo che cominciò ad indagare sui rapporti tra i mafiosi di Altofonte e Corso dei Mille insieme al commissario Boris Giuliano e al capitano Basile.

Nel 1980 il capitano Basile venne assassinato e fu decisa l'assegnazione di una scorta alla famiglia Borsellino.

Caponnetto, capo dell'Ufficio istruzione, decise di istituire un gruppo di giudici istruttori che si sarebbero occupati esclusivamente di reati di stampo mafioso: nacque il pool antimafia.

Caponnetto chiamò Borsellino a far parte del pool insieme a Giovanni Falcone, nonchè amico d'infanzia di Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.

Le voci giravano e ben presto Borsellino e la sua squadra divennero famosi in tutta Italia. Non tutti però apprezzavano quello che facevano. La mafia cominciò a mettergli i bastoni fra le ruote.

Il 23 Maggio 1992, in un attentato sull’autostrada A29 all’altezza di Capaci, persero la vita Giovanni Falcone, la moglie e tre agenti della scorta.

Il dolore per la perdita del caro amico però non fermò Borsellino.

Lavorò senza sosta, indagò e ascoltò con responsabilità e dedizione.

Una domanda che la gente potrebbe porsi è: come faceva Borsellino a non avere paura?

“La paura è normale che ci sia, in ogni uomo, l’importante è che sia accompagnata dal coraggio. Non bisogna farsi sopraffare dalla paura, altrimenti diventa un ostacolo che ti impedisce di andare avanti” diceva.

Nel caso di Borsellino il coraggio aveva la meglio.

Il 19 Luglio 1992 si recò a Villagrazia di Carini per passare una giornata in serenità con amici. La giornata però si trasformò in un film dell’orrore. Una Fiat imbottita di tritolo uccise Borsellino e i cinque agenti della scorta.

Il 24 Luglio circa 10.000 persone parteciparono ai suoi funerali privati.

La morte di Borsellino fece sgretolare le speranze dei palermitani che vedevano in lui un eroe, un esempio da seguire.

“Non li avete uccisi: le loro idee camminano sulle nostre gambe.”

MIRIAM CULOTTA

 

Un investigatore troppo pericoloso

"Un eroe normale" lo ha definito suo figlio "pronto a tutto, forte e deciso" cosi veniva descritto da chi lo conosceva, specialmente Paolo Borsellino.

Giorgio Boris Giuliano, capo della squadra mobile di Palermo, venne ucciso il 21 luglio del 1979 a 49 anni, con sette proiettili alle spalle.

Sin dall’adolescenza aveva cullato il desiderio di entrare in Polizia e realizzò il suo sogno nel 1956, dopo la laurea in giurisprudenza, quando superò il concorso che gli permise infine di diventare capo della squadra mobile di Palermo. Quando alla fine del 1963, Giuliano prese servizio nel capoluogo siciliano, Palermo era una città in cui cresceva il mercato della droga gestita dai clan siciliani e americani. Giuliano cominciò ad indagare su questo giro internazionale in collaborazione con gli investigatori americani della Dea.

Malgrado le pressioni sempre più forti, Giuliano continua le sue indagini convinto di essere nel giusto. Ad aver determinato il destino di Boris Giuliano però non c’è solo la pista del mercato internazionale della droga. Diventato capo della squadra mobile dopo aver preso il posto di Bruno Contrada, si era gettato a capofitto anche in un’altra indagine, quella sulla scomparsa di Mauro De Mauro. Si muoveva a tutto tondo, il vicequestore aggiunto. Toglierlo di mezzo aveva due scopi: da un lato eliminare un investigatore ormai troppo pericoloso per l’organizzazione mafiosa e dall’altro provocare uno sbandamento nelle forze di polizia, danneggiando le attività delle indagini in corso. Dopo la morte di Boris Giuliano arriveranno a riprendere quella lotta che gli era costata la vita: Beppe Montana e Ninni Cassarà entrambi successivamente uccisi dalla mafia. La strada tracciata da questi eroi del quotidiano è per noi oggi un esempio di determinazione e coraggio.  ALESSIA RUSSO

 

Il generale dei carabinieri

Carlo Alberto Dalla Chiesa, fu il primo vero generale dei carabinieri, perché ha saputo dire chiaro e netto: “Una prefettura come  prefettura, anche se di prima classe, non mi interessa”.

Dalla Chiesa divenne carabiniere dopo la seconda guerra mondiale e si distinse nella lotta al terrorismo e alla mafia, celebre è una sua frase dove disse: “certe cose non si fanno per coraggio, si fanno solo per guardare più serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei nostri figli”.

Negli anni ‘60 venne mandato in Sicilia dove indagò sull’omicidio da parte della mafia di Placido Rizzotto, e negli anni ‘70 indagò sull’intreccio sulla mafia e politica, perché egli stesso diceva: “Se è vero, che esiste un potere, questo è solo quello dello stato, delle sue istituzioni e delle sue leggi; non possiamo delegare questo potere né ai prevaricatori, né ai prepotenti, né ai disonesti”.

Nel 1974 venne mandato al nord Italia, dove  sconfisse le Brigate Rosse, un’organizzazione  terrorista che aveva ucciso il presidente del consiglio Aldo Moro, successivamente fu mandato di nuovo a Palermo per combattere la mafia, anche se Dalla Chiesa disse allo stato italiano: “Chiunque pensi di combattere la mafia nel “pascolo” palermitano e non sul resto d’Italia non farebbe che perdere tempo”, però non rifiutò l’incarico e arrivò a Palermo come prefetto, ma lo stato lo lasciò solo, gli diede una scorta non adeguata a tutte le minacce che riceveva. Questa è la principale causa per cui Carlo  Alberto Dalla Chiesa e sua moglie morirono il 3 settembre 1982 a Palermo.

Molti giornali e alcuni cittadini dissero: “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”. Ma molti uomini pieni di determinazione e coraggio presero il suo posto come Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Padre Puglisi e molti altri fino ad arrivare ai giorni nostri.  

 

FLAVIO BIONDO

 

                                                           

Emanuela una come noi

“Mi hanno dato per scorta una ragazza che con un soffio cade a terra” scherzava Paolo Borsellino. Emanuela Loi, 24 anni, agente di scorta morta mentre proteggeva Paolo Borsellino nella strage di via d’Amelio. In quel caldo luglio del 1992 dopo pochi giorni avrebbe lasciato Palermo per sposarsi ma non è tornata viva nella sua isola, la Sardegna. Era brava, precisa ed innamorata del suo lavoro. Dopo il diploma entrò nella polizia di stato. I genitori erano preoccupati per il suo nuovo incarico. Da un mese era entrata nella squadra della scorta di Paolo Borsellino, ma Emanuela non si è mai tirata indietro perché quella era la sua missione, la missione che amava. “E’ il mio lavoro, non posso tirarmi indietro” lo ripeteva sempre. Una sua collega racconta che amava la vita, e il suo obbiettivo era quello di rientrare in Sardegna non certo in quel modo. Loi è la prima agente donna della polizia di stato uccisa mentre lavorava, poteva scegliere un incarico di ufficio, una missione minore. E invece no. Manu c’era sempre. Era una ragazza solare, sorrideva, Emanuela sorrideva sempre. Una risata che conquistava chi le stava accanto e teneva la sua missione per sé. Non voleva far preoccupare i suoi. Quel 19 luglio sono caduti tutti, Emanuela, Paolo Borsellino, i colleghi Walter Eddie, Agostino Catalano, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli e l’Italia intera. Ci lascia un grande esempio di dedizione ed è un grande onore per noi che il suo nome sia legato alla nostra scuola.

SIMONA DI COSTANTINO

 

 

Un eroe italo-americano

Giuseppe Petrosino detto "Joe", italiano naturalizzato statunitense, è stato il più forte e coraggioso poliziotto di tutti i tempi, morto in missione, sotto i colpi della “Mano Nera”.

Nato a Padula in Campania, il 30 agosto 1860, emigrò con la famiglia a New York nel 1873. Il piccolo Giuseppe per vivere si era messo a vendere giornali, lucidare le scarpe e studiare la lingua inglese. Nel 1877 Giuseppe prese la cittadinanza statunitense, facendosi assumere netturbino dell’amministrazione newyorkese. Era caposquadra quando, uno dopo l’altro, erano cominciati ad arrivare in America degli emigrati italiani. I poliziotti, quasi tutti ebrei o irlandesi, non riuscivano a capire gli immigranti né a farsi capire da loro. Con gli emigranti ansiosi di lavoro erano sbarcati negli Stati Uniti avventurieri. Petrosino era stato poi impiegato come informatore, nel 1883 senza difficoltà, era stato ammesso alla polizia. Petrosino aveva spalle larghe e bicipiti possenti. Nel 1895 Petrosino era stato promosso sergente. Giuseppe nutriva una sorta di cupo, rovente rancore verso quei delinquenti che stavano dissipando il patrimonio di stima che gli immigrati italiani avevano costruito. Petrosino era stato via via assegnato ad incarichi di sempre maggiore responsabilità. Nel 1905, divenendo poi tenente, gli era stata affidata l’organizzazione d’una squadra poliziotti italiani, ciò aveva reso più proficua ed efficace la sua lotta senza quartiere contro la mano nera. Petrosino si era infiltrato nell’organizzazione anarchica responsabile della morte del re d’Italia Umberto I, scoprendo l’intenzione di assassinare il presidente William McKinley.

Nel 1909 si reca a Palermo per condurre da solo le indagini sulla mano nera. Il 12 marzo alle 20:45 in piazza Marina, colpi di pistola suscitano il panico nella piccola folla che attende il tram. Un giovane marinaio chiamato Alberto Cardella si lancia coraggiosamente verso il giardino Garibaldi, da dove sono giunti gli spari, in tempo per vedere un uomo cadere lentamente a terra, si scopre che si tratta di Giuseppe Petrosino. Il governo mise subito a disposizione la somma di 10.000 lire, corrispondenti a 40.000 euro, per chi avesse fornito elementi utili a scoprire i suoi assassini. Circa 250.000 persone partecipano al suo funerale a New York. Si ritiene che il responsabile della sua fine sia il boss Vito Cascio Ferro. Quando Cascio Ferro venne arrestato gli fu trovata addosso una fotografia di Petrosino.

La morte di Petrosino simboleggia il riscatto di tanti migranti meridionali onesti che, di fronte all’accusa razzista di essere delinquenti omertosi, possono difendersi ricordando il coraggio del poliziotto di Padula.

MATTIA COLOMBO.

 

 

Il giudice ragazzino

“Il giudice ragazzino” cosi chiamato per la sua giovane età dal presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

Rosario Angelo Livatino nasce a Canicattì il 3 ottobre 1952. Studente modello sin dalle scuole elementari, concluse tutte le scuole con il massimo dei voti. Dopo il Liceo Classico si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo. Poi vince il concorso per vicedirettore in prova presso la sede dell’Ufficio del Registro di Agrigento, dove restò dal 1° dicembre 1977 al 17 luglio 1978. Partecipa con successo al concorso in magistratura. Lo supera e va a lavorare a Caltanissetta come uditore giudiziario. Dopo qualche tempo passa al Tribunale di Agrigento, dove dal 29 settembre 1979 al 20 agosto 1989, ricopre l’incarico di Sostituto Procuratore della Repubblica. Qui si occupa delle più delicate indagini antimafia, ma anche di criminalità comune. Si occupa anche dell’indagine che poi negli anni ’90 verrà conosciuta come la "Tangentopoli siciliana". Mette a segno numerosi colpi contro la Mafia, attraverso lo strumento della confisca dei beni e combattendo la corruzione in maniera molto forte. Scopre legami tra la Mafia e la Massoneria. Livatino ed alcuni magistrati del suo gruppo furono i primi ad interrogare un ministro nel corso di un’indagine. Il giudice ha lasciato molte testimonianze della sua attività professionale di cui sono pieni gli archivi dei tribunali. I suoi interventi pubblici furono molto rari. Gli unici interventi pubblici, fuori dalle aule di giustizia, "Il ruolo del Giudice in una società che cambia" (1984) e "Fede e diritto" (1986). Questi discorsi costituiscono un testamento morale di Rosario Livatino. Livatino visse abbastanza lontano dal contatto con il pubblico. Il magistrato di Canicattì fu ucciso in un agguato mafioso la mattina del 21 settembre 1990 sul viadotto Gasena della SS 640, che collega Agrigento a Caltanissetta, mentre si recava in Tribunale senza scorta e con la sua auto privata. Esecutori e mandanti del suo assassinio sono stati tutti individuati e condannati all’ergastolo, ma con pene ridotte per chi collaborava. Fu ucciso dalla Stidda agrigentina, un’organizzazione mafiosa in contrasto con Cosa Nostra.

Rosario Angelo Livatino oltre ad essere un uomo giusto, incorruttibile ed un ottimo magistrato, era un uomo di profonda fede cristiana. Visse tenendo sempre presenti gli insegnamenti del Vangelo e la sua vita, sin da quando era ragazzo. Nel maggio del 1993 Papa Giovanni Paolo II è in Sicilia. Il Papa ad Agrigento definisce il giudice Livatino un "martire della giustizia e indirettamente della fede" e compie il famoso anatema contro la Mafia in cui invita gli uomini di questa organizzazione a convertirsi e a cambiare vita, in attesa, un giorno, del giudizio di Dio. Il 4 ottobre 1995 viene fondata l’Associazione "Amici del Giudice Rosario Angelo Livatino", che ha sede a Canicattì (Ag). L’Associazione si propone di tenere viva la memoria del giudice, di promuovere una cultura della legalità con incontri e dibattiti, e di avviare un processo di canonizzazione nei confronti di Rosario Livatino. Tra l’altro il giudice avrebbe anche compiuto un paio di miracoli, post-mortem, di cui uno riguarda una signora guarita da una grave forma di leucemia, alla quale Rosario Livatino è apparso in sogno, in abiti sacerdotali, incoraggiandola a reagire e a guarire. Livatino è stato un uomo che alle pubbliche dichiarazioni preferiva il quotidiano impegno al tavolo di lavoro. Un lavoro scrupoloso, ostinato e senza risparmiarsi. Sul suo tavolo di lavoro egli teneva un Crocifisso e un Vangelo. Era un operatore di giustizia. Il Cristianesimo era il suo programma di vita. La memoria di Rosario Livatino è tenuta viva non solo dall’Associazione ma anche da targhe, aule di tribunali, vie e piazze di alcune città italiane a lui intitolate. Tra gli scritti che lo riguardano vorrei ricordare "Il piccolo giudice. Fede e Giustizia in Rosario Livatino" di Ida Abate (sua professoressa al liceo) e "Il giudice ragazzino" di Nando Dalla Chiesa, dal quale è stato tratto l’omonimo film di Alessandro Di Robilant con Giulio Scarpati e Sabrina Ferilli. Rosario Livatino non era un cattolico bigotto ed ipocrita, ma era un cattolico che viveva la sua fede in maniera interiore e consapevole, testimoniandola con i fatti e con la vita di tutti i giorni.

MICHELANGELO FAMOSO

 

 

“Ho sognato una Palermo libera dalla mafia”

Ninni Cassarà sognava una Palermo libera dalla mafia. Con la piena consapevolezza dei pericoli cui si esponeva, nella lotta contro la feroce organizzazione mafiosa, ispirava, conduceva e sviluppava in prima persona e con eccezionale capacità investigativa una serie di delicate operazioni di polizia giudiziaria che portavano all'identificazione e all'arresto di numerosi fuorilegge. Alto esempio di attaccamento al dovere spinto fino all'estremo sacrificio della vita. Ninni Cassarà era definito un eccezionale poliziotto per la sua intelligenza fuori dall’ordinario. Cassarà fu uno stretto collaboratore di  Giovanni Falcone e collaborò con il “pool  antimafia”. Tra le numerose operazioni cui prese parte, molte delle quali insieme al commissario Giuseppe Montana, la nota operazione "Pizza Connection", in collaborazione con forze di polizia degli Stati Uniti. Il 6 agosto 1985, rientrato dalla questura nella sua abitazione a Palermo a bordo di un’Alfetta e scortato da due agenti, scese dall’auto e fu ucciso a fucilate da nove uomini appostati sull’edificio di fronte. Ninni Cassarà fu un uomo determinato e nonostante sapesse i pericoli che correva, continuò con coraggio fino alla morte.

GIOVANNI LIONETTI 

 

 

 

 

Il coraggio delle parole

“Non si può definire mafioso il piccolo delinquente, i veri mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione.” Frase che Giuseppe Fava ripeteva sempre.

Giuseppe Fava detto Pippo nacque a Palazzolo Acreide il 15 Settembre 1925. I suoi genitori erano maestri di scuola elementare. Nel 1943 si trasferisce a Catania  e si laurea in giurisprudenza. Nel 1952 diventa giornalista e nel 1956 venne assunto dall’“Espresso sera”. Iniziò a scrivere vari argomenti ma rimane colpito da alcune interviste fatte ad alcuni boss di “cosa nostra” tra cui Calogero Vizzini e Giuseppe Genco Russo. Inizia a scrivere per il teatro e la sua prima opera “Cronaca di un uomo” vince il premio Valle corsi nel 1956. Pippo Fava fece del Giornale del Sud un quotidiano coraggioso. Fu in quel periodo che riuscì a denunciare le attività di “cosa nostra” e prese posizione a favore dell’arresto del boss Alfio Ferlito. Dopo questo articolo venne organizzato un attentato a cui scampò, in seguito il Giornale del Sud chiuse. Rimasto senza lavoro e con molta forza di volontà riuscì a pubblicare una nuova rivista mensile, i “Siciliani”. L’articolo più importante è intitolato “I quattro cavalieri della Apocalisse mafiosa”. Si tratta di un inchiesta-denuncia sulle attività illecite di quattro imprenditori catanesi: Carmelo Costanzo, Gaetano Graci, Mario Rendo e Francesco Finocchiaro, e di altri personaggi come Michele Sindona, dove Fava collega i cavalieri con il clan del boss Nitto Santapaola. Nell’anno successivo Rendo, Salvo Andò e Graci cercano di comprare il giornale ottenendo solo rifiuti. “I siciliani” continuò a mostrare foto con politici, imprenditori e questori collusi alla mafia.

Il 5 Gennaio del 1984 alle ore 21:30 a Catania viene ucciso con 5 proiettili.

Per tutti Pippo era uno scrittore importante, drammaturgo, sceneggiatore, saggista ma soprattutto cronista coraggioso, infatti lui spesso diceva “A che serve vivere, se non c’è il coraggio di lottare”.

CARLA UCCELLO

 

 

 

Storia di un uomo semplice e coraggioso!

“Lo so...lo so che per voi la mafia vi sembra un’onda inarrestabile...ma la mafia si può fermare...e insieme la fermeremo!!!” Queste erano le parole di Pio La Torre sindacalista e politico siciliano.

Pio La Torre nacque a Palermo il 24 dicembre del 1927. Fin da giovane combatté per i diritti dei braccianti siciliani e per il diritto alle coltivazioni delle terre. La sua protesta consisteva nella confisca di terre non coltivate o coltivate male per darle ai contadini che ne avessero bisogno e per questo venne arrestato ma quando uscì nel 1951 riprenderà la sua carriera come sindacalista della CGIL e si iscrisse al Partito Comunista Italiano. Nel 1972 venne eletto deputato in Sicilia e propose una legge che introduceva il “reato di associazione mafiosa” e una norma che prevedeva la confisca delle proprietà ai mafiosi. Nel 1976 fu componente della commissione parlamentare antimafia (CPA) che accusò di far parte della mafia molti uomini di quel periodo come Giovanni Gioia, Vita Ciancimino e Salvo Lima. Nel 1981 tornò in Sicilia come segretario regionale del Partito Comunista ma la mattina del 30 aprile 1982, nella macchina guidata da Rosario Di Salvo, autista di Pio La Torre, ci fu un agguato dove Pio La Torre morì subito mentre di Salvo prima sparò alcuni colpi e poi morì anche lui. Dopo anni di indagini vennero condannati all’ergastolo i mandanti dell’omicidio di Pio La Torre tanti boss mafiosi come: Salvatore Riina, Michele Greco, Bernardo Brusca, Bernardo Provenzano, Giuseppe Calò, Francesco Madonia e Antonio Geraci. Al funerale di Pio La Torre presero parte molti uomini politici tra cui Enrico Berlinguer, che in quel periodo era leader del Partito Comunista Italiano e vi parteciparono più di centomila persone che sicuramente avevano riconosciuto in lui un uomo onesto che ha portato avanti le sue battaglie senza avere paura della mafia. Pio La Torre è stato sepolto nel cimitero dei Cappuccini di Palermo e così quegli uomini che si credono d’onore hanno messo fine alla vita di un uomo che ha lottato per dare libertà e far capire al popolo siciliano di avere dei diritti. Pio La Torre rappresenta una speranza e un esempio per gli uomini di domani.

ALLYSON ARUTA

 

 

 

LA MAFIA UCCIDE IL SILENZIO PURE

Peppino Impastato, noto per le sue denunce contro le attività  di cosa nostra, era un giornalista, attivista, poeta italiano, rivoluzionario ed un militante comunista.

Peppino nacque da una famiglia mafiosa e da giovane rompe con suo padre e venne cacciato da casa, e poco dopo avviò un’attività  politico-culturale antimafiosa.

Nel 1965 fonda il giornalino chiamato L’idea socialista che aderisce al PSIUP e poco dopo dal 1968 in poi partecipa (con ruolo di dirigente) alle attività dei gruppi comunisti.

Nel 1976 costituisce il gruppo Musica e cultura, che svolge attività culturali.

Nello stesso anno fonda radio aut, radio libera con cui denuncia i delitti e gli affari dei mafiosi.

Nel 1978 si candida nella lista di Democrazia Proletaria alle elezioni comunali, ma non fa in tempo a sapere l'esito delle votazioni perché viene assassinato nella notte tra l'8 e il 9 maggio del 1978, nel corso della campagna elettorale dopo vari avvertimenti che aveva ignorato. Col suo cadavere venne inscenato un attentato, atto a distruggerne anche l'immagine, in cui la stessa vittima apparisse come suicida, ponendo una carica di tritolo sotto il suo corpo adagiato sui binari della ferrovia. Pochi giorni dopo, gli elettori di Cinisi votano ancora il suo nome, riuscendo ad eleggerlo, simbolicamente, al Consiglio comunale.

Le sue parole ancora oggi sono un’esortazione per tutti noi.

“Io voglio scrivere che la mafia è una montagna di merda! Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia troppo tardi! Prima di abituarci alle loro facce! Prima di non accorgerci più di niente!”

ALESSIO VIRGA

 

 

 

ME L’ASPETTAVO

Perché un Prete nato a Brancaccio ritorna a Brancaccio?

Padre Pino Puglisi nasce il 15 Settembre 1937 a Brancaccio, quartiere periferico di Palermo. Nel 1953, a 16 anni, entra nel seminario palermitano da cui uscirà Sacerdote il 2 Luglio 1960.                                   

Don Puglisi dal 1960 al 1990 fu Sacerdote in tantissime chiese della Sicilia, fino a quando nel 1990 venne nominato Parroco nella chiesa di San Gaetano a Brancaccio.

Don Puglisi tolse dalla strada ragazzi e bambini che, senza il suo aiuto, sarebbero stati risucchiati dalla vita mafiosa e impiegati per piccole rapine e spaccio di droghe.  Il fatto che lui togliesse giovani alla mafia fu la principale causa dell’ostilità dei boss, che lo consideravano un ostacolo.

Don Pino ebbe sempre una grande passione educativa, che lo portò ad assumere incarichi di docenza in molte scuole siciliane.

Il suo impegno come insegnante si protrasse per oltre 30 anni, fino al giorno della morte.

Il 15 Settembre 1993 giorno del suo 56° compleanno, venne ucciso davanti al portone di casa.

Il 19 Giugno 1997 venne arrestato a Palermo Salvatore Grigoli accusato per l’omicidio di Don Puglisi.

Don Giuseppe Puglisi viene ricordato ogni anno il 21 Marzo nella giornata della Memoria e dell’impegno di Libera, la rete di associazioni contro le mafie.

“E’ DIFFICILISSIMO MORIRE PER UN’AMICO, MA MORIRE PER DEI NEMICI E’ ANCORA PIU’ DIFFICILE”

 

SIMONE SOFIA

 

 

 

UNA DONNA CORAGGIOSA E INNAMORATA

“Si dice che nella vita ci si innamora davvero solo 3 volte: la prima volta da adolescenti, la seconda crediamo sia quella definitiva, ma la terza è per sempre”. Francesca Morvillo nata a Palermo il 14 dicembre 1945, si laurea in giurisprudenza all'università degli studi di Palermo il 26 giugno 1967 dopo un corso di studi eccellente (solo in 3 esami ottiene il 30 senza lode), con una tesi dal titolo “STATO DI DIRITTO E MISURE DI SICUREZZA”, riportando il massimo dei voti e la lode accademica. La qualità del risultato raggiunto le fa meritare il conferimento del premio. Francesca Morvillo insegnò anche presso la facoltà di medicina e chirurgia dell'ateneo palermitano, in quanto docente di Legislativa del minore della scuola di specializzazione in Pediatria. Nel 1979, dopo un matrimonio concluso con la separazione, Francesca Morvillo conobbe Giovanni Falcone, all'epoca giudice istruttore presso il tribunale di Palermo. Nel 1983 iniziarono a convivere nella casa di via Notarbartolo. Ottenuti i rispettivi divorzi, si sposarono nel maggio 1986 con una riservata cerimonia civile officiata da Leoluca Orlando. L'ultimo impegno professionale di Francesca Morvillo fu il 22 Maggio 1992 all'hotel Ergife di Roma, come componente della commissione d'esame ad un concorso per l'accesso in Magistratura. Muore il 23 maggio del 1992 nell’attentato organizzato da Cosa Nostra  insieme al marito Giovanni Falcone e ai tre uomini della scorta, nella strage di Capaci. È l'unico magistrato donna assassinato in Italia. Le sue ultime parole, agonizzante in ospedale dopo l’attentato, confermano il suo amore «Dov’è Giovanni?». Vogliamo ricordarla con le sue parole che ripeteva sempre. “L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, e saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare della stessa. Altrimenti non hai più coraggio e incoscienza!”.

MARIKA BENINCASA

 

 

 

 

Era troppo onesto

L’11 agosto di 34 anni fa veniva trucidato tra i viali del Policlinico di Palermo Paolo Giaccone.

La vita di Paolo Giaccone era una vita di estrema normalità: egli infatti aveva preferito continuare a lavorare e, approfittando della sospensione estiva delle attività didattiche universitarie, si dedicava totalmente alle perizie per le quali i giudici del Tribunale di Palermo consideravano i suoi pareri necessari e insostituibili.

Dopo un po’ di tempo, fu assassinato tra i viali alberati del Policlinico di Palermo (intitolato a suo nome) l’11 Agosto 1982.

NENCY ANANIA

 

 

 

 

 

Un Professionista Esemplare

Tutti conoscono il nome Notarbartolo per una famosa via e una stazione di Palermo, ma Emanuele Notarbartolo era un banchiere e politico italiano che disse no alla mafia.

É considerato la prima vittima eccellente di Cosa nostra in Italia.  

 Nacque a Palermo il 23 febbraio 1834. Apparteneva a una famiglia di marchesi di fede borbonica, ma presto rimarrà orfano di entrambi i genitori. Fu direttore generale del Banco di Sicilia ed esponente della destra storica.

Il 1° febbraio 1893, dalla stazione di Sciara, salì sul treno che avrebbe dovuto condurlo a Palermo. Venne brutalmente ucciso con ventisette coltellate in una galleria nel tratto fra Termini Imerese e Trabia. La mafia divenne negli anni seguenti un oggetto familiare all’opinione pubblica italiana. Potrebbe dirsi che egli ebbe un ruolo storico importante da morto più che da vivo.

GIOVANNI AMMIRATA

 

 

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